Le Radici dell'odio by Oriana Fallaci

Le Radici dell'odio by Oriana Fallaci

autore:Oriana Fallaci [Fallaci, Oriana]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2015-11-19T23:00:00+00:00


MILKA USIGLI

Quando ci fu l’alluvione di Firenze mi si strinse il cuore

Sono milanese di nascita ma dal ’39 al ’45 ho vissuto a Firenze dove frequentavo la scuola ebraica di via Farina. La mia era una famiglia molto assimilata: smise d’esserlo il giorno in cui le leggi razziali mi dissero che non potevo andare alla scuola di tutti. Mi colpì perché solo per caso avevo saputo d’essere ebrea e la cosa non mi aveva fatto né caldo né freddo. Con le leggi razziali dunque mi fecero scoprire fino in fondo cosa significa essere ebrei ed io ritrovai l’ebraismo fino al sionismo. Sono qui per questo, non perché mi premesse particolarmente il kibbutz e il socialismo. Ignoravo perfino che esistesse un libro detto Capitale. Del socialismo ne sentii parlare per la prima volta a diciassette anni e lo interpretai come lo si interpreta a diciassette anni: una tendenza a cambiare il mondo per renderlo migliore. Non avevo libri né informazioni. Per anni ero stata chiusa in casa a ricever la notizia che un amico era morto, un altro amico era morto… Del kibbutz seppi qualcosa dopo l’arrivo degli alleati a Firenze. Il giorno in cui gli alleati entrarono in città, noi ebrei di Firenze ci precipitammo alla sinagoga e qui conobbi colui che sarebbe diventato mio marito. Si chiamava Marco Morpurgo, aveva ventiquattro anni e veniva da una famiglia di Padova dove era stato costretto, anche lui, a interromper gli studi per le leggi razziali. Sognava di trasferirsi in un kibbutz perché suo fratello stava già in un kibbutz.

Partii insieme a lui, nel 1945, dando un dolore a mia madre che non capiva questa storia della Palestina. Ero la sua sola figlia, e non potei nemmeno salutarla il giorno in cui lasciai Firenze. Ci avevano messo in un campo, non sapevamo quando sarebbe giunto il momento di andarcene. Ogni mattina andavo a visitarla e le dicevo: «Mamma, forse domani parto». Una mattina le dissi: «Mamma, se domani non mi vedi vuol dire che sono partita». E così avvenne. Ma non fu terribilmente drammatico: la mamma rimase sola a Firenze per due anni e basta, poi mi raggiunse in Israele. Inoltre, se dicessi che mi dispiacque lasciarla, sarei un’ipocrita. I certificati di emigrazione li davano soltanto ai giovani: quell’anno lei non poteva venire. Del resto, anche se avessi provato un dolore, esso sarebbe svanito sulla nave che ci portava a Haifa. Eravamo tutti così felici! Eravamo tutti ragazzi ed eravamo stati un mucchio di tempo senza parlare, ci sentivamo affamati di discussioni, e per tre notti non facemmo che chiacchierare: sulla guerra, sull’ebraismo, sulla Palestina, sul mondo, sul cosmo… Ricorderò sempre quella nave. Non era nemmeno una nave, era un battello pei grandi laghi. Vicino alle ciambelle di salvataggio c’era una scritta: «Portata massima cento persone oltre all’equipaggio».

Ridevamo, leggendo, perché eravamo in novecento. Cento italiani e ottocento provenienti dall’Europa Orientale.

Partimmo da Taranto. Fino ad Haifa viaggiammo con la paura di saltare in aria: il Mediterraneo era ancora pieno di mine. A Haifa



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